WRAD MAGAZINE
publish on April 04, 2022
“Sì, fra', era solo un dream
Qua vincono i cattivi
Poveri più poveri, i ricchi sempre più ricchi, non è un film
Il comandante ci ha mentito e guardiamo la nave andare a picco”
Gue – Too Old To Die Young
Quando, circa due anni fa, ci siamo ritrovati catapultati in un mondo repentinamente stravolto, una frase ha preso a riecheggiare per le strade deserte: ne usciremo migliori.
A ripensarci oggi provo un sentimento sospeso tra il disgusto e la rabbia.
Mentre la realtà si inceppava, tutti si mostrarono parecchio propensi ad aggrapparsi a questo slogan, a farne la propria bandiera da sventolare dai balconi. Inutile dire che il movente fosse quasi esclusivamente la paura – trovandosi d’un tratto indifesi e vulnerabili – e l’ottimismo un modo opportunista e vigliacco di pararsi il culo, cercando di instillare un po’ di bontà artefatta in attesa che si calmassero le acque.
“Tutto ciò che l'uomo ha imparato dalla storia, è che dalla storia l'uomo non ha imparato niente.”
Lezioni sulla filosofia della storia – G.W.F. Hegel
Beh, non ne siamo certo usciti migliori. Come specie ne siamo usciti cinici quanto prima, con l’ulteriore aggravante di non aver imparato nulla nemmeno da un evento tanto significativo. Tutta la retorica del “vogliamoci bene e aiutiamoci l’un l’altro” è evaporata non appena è tornata la possibilità di macinare il mondo – molti non hanno smesso un giorno –, di riprendere la solita corsa individualista e spietata e avida. Show Must Go On, e lo show è il capitalismo con la sua insostenibilità intrinseca. Siamo una manica di bugiardi che pensano solo al proprio tornaconto personale e che sbandierano la solidarietà solo se vantaggiosa per sè, come tutela nel momento in cui ci si trova in una posizione di vulnerabilità.
A tirare qualche somma oggi, temo di doverci auto-assegnare il premio per gli scemi del villaggio. Proprio a noi, giovani dalle belle speranze e dallo scarso acume e amor proprio. Tutti i bei discorsi in tempo di lockdown su come ricostruire un rapporto col lavoro più sano e meno auto-distruttivo, su come la vita possa andare oltre l’annullarsi sull’orizzonte del “dovere”, del profitto, della performance esasperata ed esasperante, tutto macinato nel tritacarne del Capitalismo. Oppure, su come l’immobilismo forzato dovesse essere la grande occasione per riequilibrare il nostro rapporto con l’ambiente, per creare un futuro in cui la parola “sostenibile” assuma davvero un qualche significato.
«La storia non è magistra/ di niente che ci riguardi./ Accorgersene non serve/ a farla più vera e più giusta».
Satura – Eugenio Montale
Il risultato, mi pare, sia che ora quasi tutti lavorano in maniera più stressante e pervasiva, con costi della vita più alti – basti pensare ai rincari esponenziali su energia, cibo, materie prime –, stipendi invariati, prospettive stroncate da crisi globali di vario tipo. Perennemente stanchi, esauriti, incazzati, spaventati. In Italia, a fronte di un disagio psichico dilagante, il governo ha fatto una fatica tremenda a stanziare 50 milioni di “bonus psicologo” dopo averne trovati agilmente 250 per il bonus rottamazione tv e il bonus tv-decoder, altri 50 per il bonus terme. Insomma, potremo impiccarci guardando il meglio del palinsesto dal nostro nuovo schermo piatto o concederci una rilassante giornata in Spa mentre capiamo come arrivare a fine mese senza morire di freddo.
In questa disparità crescente, poi, c’è molto di generazionale. Noi giovani, sotto vari ricatti, ci facciamo spingere in questa giostra delirante che, sostanzialmente, va a vantaggio di chi vuole conservare lo status quo. Come l’Ancient Regime che innescò la Rivoluzione Francese. Ci giochiamo il futuro perché ci lasciamo abbindolare dai conservatori – date un’occhiata all’età media di manager e governanti in Italia e non solo – disposti a tutto pur di restare aggrappati ai propri privilegi. Anche a mettere un’ipoteca sul futuro dei propri figli e nipoti, auto-giustificandosi che, così facendo, sarà l’accumulo e la trasmissione dei patrimoni personali a tutelare la progenie dalla stessa società, sempre più assurda e spietata, che hanno contribuito a produrre. In fondo, a chi si avvia verso la terza età, cosa frega del futuro delle generazioni successive? Il motto di Steve Jobs “Stay Hungry, Stay Foolish” è stato preso alla lettera: la fame diventata avidità e la follia diventa insensatezza in questa società dove la competizione è per spolpare le ossa. Se vogliamo avere un futuro, dobbiamo capire come rendere questa dinamica indigesta.
Alcuni di noi giovani, una reazione la stanno attuando, fosse anche solo per esasperazione. Boom di licenziamenti e crisi del posto fisso. Sono sempre più persone a rifiutarsi di passare giornate in ufficio ad annaspare nell’ansia e nell’improduttività soltanto per rassicurare il capo di turno, per permettergli di alzare gli occhi e osservare con soddisfazione i propri sottoposti, mentre il tempo scorre e, con esso, la possibilità di godere dell’esistenza. https://www.ilgiornale.it/news/crescono-anti-lavoro-si-fatica-met-2010227.html
Qualcuno è mai stato produttivo per 8 ore, specie se seduto ad una scrivania? Il tempo produttivo in ufficio è, ottimisticamente, il 45% del totale. Il che significa che la gran parte del tempo uno sta a cazzeggiare solo per rassicurare qualcuno. https://www.vanityfair.it/article/lavoro-orario-ufficio
Perché questo movimento terrorizza lo status quo? Perché fa crollare le fondamenta di una piramide che arricchisce solo il vertice. Perché il dinamismo dell’aia è meno controllabile di una batteria di polli in un allevamento industriale. Voi che uova scegliereste?
Sorvolerò – principalmente perché mi sarebbe impossibile trattenere le bestemmie – sul fatto che, dopo due anni estenuanti di emergenza sanitaria, la miglior idea venuta ai potenti del Pianeta sia di minacciare una Terza Guerra Mondiale. Anche questa mossa scellerata, sintomo dell’avanzata demenza senile della civiltà occidentale, contribuisce a mantenere quello che nel frattempo si è rivelato uno status quo molto efficace in termini di controllo sociale: l’emergenza.
Lo stato dell’arte (?)
La moda, nonostante i proclami, non ha fatto altro che seguire il trend e peggiorare a sua volta.
Tra gli ultimi brand che hanno deciso di ricordarci quanto si possa essere ipocriti e sfruttatori c’è la parigina Sèzane. Questa b-corp certificata https://www.bcorporation.net/it-it (di cui, lo ammetto, ignoravo l’esistenza) ha fatto imbestialire il governo messicano (e non solo, per fortuna) dopo che, durante uno shooting per la propria collezione a Teotitlán delle Valle, ha reclutato un’anziana nativa – dopo aver promesso al governo locale di lasciare in pace la popolazione locale durante la campagna – per scattarle alcune foto. In cambio le hanno dato 200 pesos, circa 10 dollari. Un colpo di genio che sintetizza e attualizza secoli di colonialismo. https://www.archyde.com/sezane-controversy-5-minutes-to-understand-why-the-brand-has-attracted-the-wrath-of-mexico/
La fondatrice di Sèzane Morgane Sézalory, in tutta risposta, ha inviato un messaggino su Instagram privo di scuse e tanto auto-referenziale (contate il numero di “I” presenti) da apparire assurdo, in cui inanella concetti del tipo: “vi invito a Parigi a vedere quanto il mio lavoro sia guidato dal mio cuore”. https://www.instagram.com/p/CYnXsaUDeHp/ Non credo che agli indigeni importi un granché di andare a Parigi. Basterebbe che non si andasse a casa loro a prenderli per il culo, sfruttandoli per vendere vestiti che costano come un anno e più del loro stipendio.
Mi chiedo come mai Sèzane possa ancora fregiarsi – nel 2015 erano stati al centro di un altro scandalo per lo sfruttamento di lavoratori in Macedonia – di quella che dovrebbe essere la massima certificazione sul tema della sostenibilità socio-ambientale e, soprattutto, come mai le altre B-corp non stiano facendo pressioni per toglierla a Sèzane che in questo modo danneggia pure le aziende che davvero si impegnano in questo senso.
Inutile aggrapparsi all’illusione che la moda sia, ancora, una forma d’arte o un’espressione umana in grado di migliorare la società. Questa parvenza con cui continua ad ammantarsi serve solo come leva di marketing ormai. È, salvo rarissime eccezioni, una menzogna funzionale ad arricchirsi inondando il Pianeta di merda superflua, con la scusa che bisogna continuare a far crescere consumi e produzioni a qualsiasi costo. Ad essere ottimisti c’è da augurarsi che la moda faccia meno danni possibile, altro che cambiare il mondo in meglio.
I grandi guru (nuovi o storici che siano) che, spesso dai propri lussuosi appartamenti metropolitani, si ergono a salvatori del mondo con a cuore persone e ambiente verso cui, sostanzialmente, non hanno alcuna forma di sensibilità, figurarsi di rispetto, ci ricordano che chiunque accumuli grossi profitti in breve tempo lo faccia inevitabilmente calpestando qualsiasi cosa: persone, ambiente, leggi, etc. etc.
Datevi un proposito per quest’anno: non comprate nessun nuovo capo. Troppo? Allora non comprate nulla di cui non possiate conoscere personalmente chi l’ha realizzato.
Non facciamoci ingannare dagli illusionismi planetari della moda e piantiamola con questa sindrome da subalternità culturale verso i brand. Non sono divinità depositarie di sapere e verità e bellezza ma sono sempre più realtà suddite di giochi finanziari, che sfruttano l’etica altrui e la propria eredità storica per vendere di più, per vendere peggio e facendo pagare il prezzo ad un presente di sfruttamento e a un futuro di guerra per le risorse, mentre ci sarà da fronteggiare la più grande crisi climatica a memoria d’umanità.
La moda che vorrei, un’utopia (ir)realizzabile?
Fosse per me, spazzerei via qualsiasi brand di moda che produce in maniera industriale, lanciando collezioni su collezioni che si fondano sul concetto stesso di “invenduto”. Finchè non hai venduto il 99% di ciò che hai prodotto (o fatto produrre), non puoi tornare a produrre. Dovrebbe essere una regola vincolante per qualsiasi azienda.
Un rapporto tra consumatori e aziende in cui quest’ultime siano davvero a servizio dei primi e del futuro di tutti. Consumatori educati all’idea che un capo sia qualcosa da utilizzare il più a lungo possibile. Persone consapevoli che ci voglia del tempo da quando si desidera qualcosa a quando la si può ottenere, il tempo necessario alle aziende per produrre in maniera più sana.
Difficilmente si acquista un capo perché rappresenta l’unica speranza immediata di uscire di casa senza morire di freddo. Nessuno ha davvero questa necessità, quindi, perché quest’ansia di ricevere un pacco entro 24 ore? Nell’attesa di ciò che si desidera, emerge la differenza tra un acquisto che giustifica il proprio costo socio-ambientale e un acquisto fatto solo per soddisfare la superficiale smania di possesso, l’acquisto compulsivo, che altro non è che un tentativo inutile di colmare un vuoto (umano/emotivo/esistenziale) buttandoci sopra quante più Cose possibili.
L’altro fattore è, inevitabilmente, il prezzo. La fast fashion ha alterato la percezione generale. I prezzi che propone al cliente finale sono il risultato di un meccanismo perverso che scarica i reali costi su chi produce le materie prime, su chi le esporta, su chi produce i capi, sullo smaltimento dei rifiuti, sull’impatto dei vari processi etc. etc. Un gioco al risparmio che scarica il conto, salatissimo, sul futuro di tutti.
A Vicenza, grazie alle Pfas, sono decenni che risparmiamo sul costo di piumini e giacche impermeabilizzate, pagandolo con un’incidenza più elevata di tumori e malattie da inquinamento delle acque e del territorio. Vale la pena? Pagare una t-shirt 3€ oggi vale un futuro di maggiori diseguaglianze socio-economiche in un ambiente devastato e sempre più ostile alla salute? Crediamo davvero che i soldi potranno salvarci in un Pianeta in cui le condizioni che ci permettono di vivere sono al collasso?
Se l’industria, al di là dei proclami, non cambierà radicalmente, cancellarla in toto sarà una questione di sopravvivenza. Al suo posto, non senza un certo anacronismo, potrebbe risorgere una moda dall’approccio artigiano: coi tempi e i costi necessari a produrre capi durevoli e rispettosi del presente e del futuro, senza sprechi e senza la smania costante e consumistica della novità. Un perfezionismo qualitativo anziché una cieca e controproducente sovrabbondanza quantitativa.
Cancellare l’industria della moda, per salvare davvero chi fa i vestiti.
Serve la rabbia, delle volte. Ribaltare lo status quo per garantirsi un futuro non può che essere tra queste.
ALVISE BORTOLATO // Nato a Padova nel 1993. Laureato in filosofia teoretica, appassionato di viaggi e letteratura. Crede nella scrittura come forma di cura e nella conoscenza come forma di libertà. Collabora con aziende artigianali e sostenibili, per le quali cerca le parole giuste per dire la verità.
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