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Dispacci dall'Indocina - #5 Malay Peninsula parte seconda
Dispacci dall'Indocina - #5 Malay Peninsula parte seconda

WRAD MAGAZINE

Dispacci dall'Indocina - #5 Malay Peninsula parte seconda

publish on May 19, 2023

Dispacci dall’Indocina

#5 Malay Peninsula parte seconda

29 dicembre 2022


“Dalla Geografia di Tolomeo e da altre fonti antiche Sartre estrae un nome che sa di casa, Cattigara, con cui si indica invece l’estremo luogo pensabile per gli antichi: «Non credo di essere molto lontano dal vero nell’associare il nome di Cattigara all’Indocina nel suo complesso, che segna la fine del mondo conosciuto dai popoli del Mediterraneo, il punto estremo del mondo abitato verso est». L’Indocina era dunque la finis mundi per gli Occidentali dell’Impero.”

Una nave nel deserto – Corrado Bologna


13,14,15,16 dicembre 2022 | Kuala Lumpur, Malacca


Dal 48esimo piano la vista spazia sulla città. Il distretto finanziario si erge con la sua verticalità turrita scintillante di vetro e acciaio, coi rooftop di design arroccati tra le architetture, i terrazzi ornati da giardini pensili. Assomiglia a una Babilonia tropicale risputata dal futuro. Ma basta spostare lo sguardo oltre il limitare dei grattacieli e, separata da un’autostrada a sei corsie e un fiume fangoso che trascina spazzatura, appare un quartiere che non si è piegato al progresso. Bassi edifici di colori improbabili dai tetti di lamiera affastellati, le strade strette e labirintiche, i cavi che si stendono come la ragnatela di un ragno sotto psichedelici, la vegetazione che cerca di inghiottire le abitazioni. Di notte, emerge una macchia oscura accanto allo sfavillante spettacolo rifulgente di luci multicolor offerto dai grattacieli. Due mondi che sembrano appartenere a epoche diverse, a concezioni di vita diametralmente opposte. Quanti modi di esistere sotto lo stesso cielo. Quante cose può essere una vita.


E quanto varia - e quindi vasta - può essere un’esperienza di vita? Viaggiare non è che uno dei modi per espanderla, per tentare di sfuggire – inutilmente – alla fine. Di rimpinguare l’esistenza e gettare sprazzi di luce per ricacciare, almeno per un po’ il buio da cui siamo stati risputati e che, ineluttabile, tornerà a inghiottirci. Alla fine dei conti non servirà, ma almeno ci saremo divertiti.

Per quanto sia accattivante l’idea di essere artefici del proprio destino, la famiglia da cui si proviene ha un’influenza profonda e inevitabile sulle traiettorie esistenziali. Apprendo da una telefonata con nonna che dei quattro nipoti cresciuti sotto il suo sguardo: mia cugina è a l’Aia ormai da qualche mese, suo fratello è in viaggio in Etiopia, mio fratello è partito oggi in solitaria per il Marocco e io sono a girovagare nel sud est asiatico.

Non abbiamo ancora visto il sole su Kuala Lumpur e, a parte qualche rovescio che difficilmente dura più di mezz’ora, il resto del tempo siamo sovrastati da un cielo lattiginoso e una luce che ferisce gli occhi. Il fotografo non ne è molto contento. Ad ogni modo, giunti al terzo giorno in città, la mia insofferenza urbana inizia a manifestarsi e torna la brama di verde e quiete.

Con l’autista Grab con cui torniamo in città dopo una rapida visita alle Batu Caves parliamo della pioggia che cade, di allagamenti inattesi e di stagioni che si fanno di anno in anno più imprevedibili. In Italia il caldo macina record su record e l’inverno arido è per gran parte una copia sbiadita di ciò che è stato fino a pochi anni fa, la costa orientale degli Stati Uniti è avvolta in una morsa di gelo feroce, l’Australia nordorientale è in emergenza inondazioni. E la lista è drammaticamente più estesa. L’inquinamento poi, almeno nella Pianura Padana siccitosa, dilaga e permea ogni cosa. Questo è il mio primo inverno senza sinusiti, raffreddori e compagnia bella. Ognuno ha i propri patimenti su questa terra, verrebbe da dire.

Eppure, vi è una forma di cecità, quasi fosse un tentativo di auto-difesa, nel trattare manifestazioni differenti della stessa ampia trasformazione come se fossero problemi locali. Uno stordimento la cui conseguenza è di tentare soluzioni altrettanto locali. Senza un’azione politica coordinata a livello globale, non si realizzerà altro che l’ennesimo “dividi et impera”, visto dall’altro lato della barricata. Quella dei divisi, dei sovrastati, degli oppressi da cambiamenti più grandi di noi. Nella lotta per la sopravvivenza, l’incapacità di adattarsi in tempo è letale.

Abituarsi alle asprezze, smussare le proprie rigidità e scoprirsi altro, un po’ più inattaccabili dalle circostanze avverse. Anche Kuala Lumpur, così proiettata nel futuro, rivela luoghi refrattari al progresso nei suoi interstizi. Nascosti tra i lembi delle sue carni d’acciaio e vetro, dove tutto sembra votato all’obbligo dell’efficienza, scintillante e costosa, incappiamo in una via insospettabilmente incistata tra i grattacieli. Con pochi spicci mangiamo un piatto di noodles da un food truck, poco più in là sediamo in un baracchino per una zuppa. Le persone che ci lavorano sono amichevoli e gentili, sembrano smaniosi di sapere di più di noi, di come ci siamo finiti alla loro tavola, se non ci fosse un inglese zoppicante a frenarli. Eppure, i loro sorrisi bastano a farci sentire accolti da qualcosa che nessun progresso con le sue performance forsennate potrà mai sostituire. L’ultima cena a Kuala Lumpur sazia più che i nostri stomaci.

Oggi festeggio un mese dal mio arrivo nel Sud Est e per la prima volta splende il sole su Kuala Lumpur. Ironicamente, proprio mentre la lasciamo. Mi bastano 100 metri con lo zaino in spalla per rimpiangere il cielo nuvoloso. Non c’è misericordia né dal sole né dalla pioggia. Entrambe si abbattono con la massima intensità.

Le notizie che mi giungono dai media e dalle persone mi consegnano un occidente fiacco, bramoso di distrazioni da problemi che lo travolgono con sempre più impeto, perso nei gossip dei reali inglesi e in puttanate sulla stessa tacca, nei giovani chiusi in casa o nell’autodistruzione senza prospettive future, nella vitalità che si spegne e nella cultura che si inaridisce e con essa la capacità di affrontare la complessità, della noia e dell’infelicità in un mondo che ha così tanto da offrire, del costante desiderare di più senza neanche sapere perché, dell’invidia e dell’insoddisfazione. Il futuro del mondo è a Oriente – o almeno in un approccio diverso all’esistenza –, solo che noi occidentali, aggrappati ai nostri privilegi sempre più esigui e rarefatti, ancora non vogliamo rendercene conto.

Malacca è tre ore a sud, città gemella – anche per l’Unesco – di Georgetown. Sostiamo una notte, per spezzare il viaggio verso Singapore, punta estrema della penisola. Prendiamo una stanza a Little India e gironzoliamo per il centro, un reticolo di canali e viuzze che ospita locali di ogni sorta, invaso dalle bancarelle di street-food e da cianfrusaglie di ogni sorta. Ci incamminiamo verso il mare, e su un ponte, assistiamo al tramonto spegnersi sullo stretto a cui la città da il nome. Tonnellate di spezie transitarono per il porto di Malacca, e il loro commercio plasmò questa parte di mondo.

Esiste una predestinazione al viaggio, una predisposizione al nomadismo? Non credo. Da piccolo parevo assolutamente avverso al moto su qualsiasi mezzo. Salivo in auto e vomitavo, anche sui tragitti più brevi. Di andar per mare non ne parliamo: qualunque fosse il natante il risultato restava invariato. Ricordo di aver vomitato anche su un volo per Londra – l’unica volta in cui usai i celebri sacchetti di carta stipati contro il sedile – ma forse fu anche per la suggestione di essere su un aereo un mese dopo l’11 settembre, diretto nell’altra città simbolo del mondo anglo-sassone. La curiosità di andare in giro vince anche su uno stomaco poco combattivo.

17 – 18 dicembre 2022 | Singapore
Singapore è una visione del futuro, a modo suo, realizzata. Incarna una particolare mescolanza tra Oriente e Occidente, una sorta di replica in tempo record (la Singapore moderna ha poco più di 60 anni di storia) della cultura occidentale fatta attecchire nel cuore del Sud Est Asiatico. Un ibrido a vocazione capitalistica dalle molte sfaccettature. È come gli inglesi si farebbero una Londra ai tropici, o gli americani una Los Angeles dall’altra parte del Pacifico.

Sfoggia appieno i traguardi della modernità e la creazione di disparità che la voracità del capitalismo occidentale porta agli estremi, quando si compie. Le strade ordinate percorse da auto ibride, i parchi pubblici curati e i negozi cashless. L’efficienza dei mezzi pubblici, il welfare e le social house dove vive gran parte della popolazione a prezzi calmierati, l’integrazione, le tonnellate di quattrini che transitano in città. Ma anche regole ferree – sulle sigarette e sui chewing-gum, ad esempio – con annesse punizioni medievali. Per i graffitari o gli usurai o per chi favorisce l’immigrazione clandestina – ma i reati sono una trentina – c’è la fustigazione, eseguita dall’apposito boia con una frusta in rattan di un metro e venti. Con lo scemare della pandemia sono riprese le impiccagioni, con cui Singapore reprime ogni vago tentativo di consumo o traffico di droga. Nella città-stato c’è una media di due omicidi l’anno e i furti riguardano quasi ed esclusivamente le bici.

Singapore è anche un luogo estremamente costoso. Per 138$ locali (circa 95€), dormiamo in una sorta di loculo, privo di finestre, in quello che scopriremo in seguito essere un hotel dove le prostitute incontrano i clienti. La superficie calpestabile della stanza non è altro che la quarantina di centimetri che separa su due lati il letto dal muro. Quando chiediamo alla reception di sistemare lo schermo attaccato sulla parete su cui dovrebbe comparire la password del wi-fi, mandano un ragazzo che risolve il problema con un poderoso ceffone. Restiamo basiti il tempo di vederlo uscire, prima di abbandonarci a una risata incredula.

Ceniamo in un ristorante italiano di proprietà di Gianluca, un parente di Nicolò che vive qui da ormai 7 anni. Un’oasi di italianità in Oriente è una piccola coccola che ci concediamo volentieri, come carovanieri dopo una lunga tratta. Alla cena partecipano anche un paio di suoi amici, sempre italiani, così abbiamo modo di ascoltare il loro punto di vista sulla città. Poi, Gianluca si offre di farci da cicerone e, dopo esserci abbuffati di pizza e focacce irrorate di vino veneto, partiamo alla volta di Marina Bay.

Non si può negare che la zona sia suggestiva. Il casinò – il cui ingresso è a pagamento solo per i singaporiani – è smisurato e affollato. A contemplarlo da un ballatoio sembra un macro-organismo intento a ruminare contanti in svariati modi, un termitaio ludopatico e insonne. Passeggiamo osservando lo skyline che si riflette sull’acqua, abbracciando la baia in cui sono incastonate architetture avveniristiche. Fa caldo anche di notte, e questa dovrebbe essere la stagione più fresca. Quando la stagione si fa invivibile, la città superiore si spopola a favore di quella inferiore, che corrisponde alle stazioni dell’efficientissima metro. Un promemoria che, per quanto Singapore possa essere avanzata e ricca, i soldi non servono contro l’implacabilità del clima. Come i latitanti mafiosi, miliardari che vivono sottoterra, nascosti come sorci.
Gianluca ci racconta che qui, una volta era mare. L’area su cui sorge Marina Bay è stata ottenuta artificialmente, depositando roccia e sabbia finchè non sono emerse dall’acqua a sufficienza da costruirci sopra. L’Indonesia ha iniziato a protestare quando il costante prolungarsi della penisola ha minacciato di raggiungere le sue coste, che ormai distano pochi chilometri.
C’è qualcosa di affascinante e inquietante al tempo stesso nel modo in cui Singapore è diventata ciò che è oggi.

Torniamo a Marina Bay per vederla alla luce del sole. Il caldo è feroce. Saliamo sul terrazzo panoramico del Marina Bay Hotel, una sorta di chiatta posata in cima alle tre torri pronta a navigare nel cielo. La vista è notevole, e spazia su una città che, nelle sue propaggini meridionali, è un cantiere aperto puntellato di gru. Gli alberi e le serre del Garden by the Bay emergono dal parco verdeggiante. Appena fuori dalla costa, le grandi navi cargo affollano il mare a perdita d’occhio.
Quando scendiamo nei giardini e ci addentriamo in una delle serre, scopriamo che ogni bioma ospitato – dalla California al Mediterraneo, dalle foreste pluviali ai deserti – viene presentato a partire dai danni creati dall’urbanizzazione e dall’agricoltura. Curioso (e un tantino ipocrita), in un luogo costruito su terra strappata al mare a suon di quattrini, con buona pace degli ecosistemi e della geografia stessa.

Quel che più conta del passato è ciò che si dimentica, diceva Furio Jesi, quel che si ricorda è solo scoria
o sedimento. Forse anche la vita è fatta di attimi di dimenticanza. Molti dei momenti di felicità esistono grazie alla dimenticanza, allo smarrimento, all’abbandono delle regole. Non saranno i giorni della monotonia a restare, saranno quelli in cui non si ha avuto paura di essere vivi. Rotondi attimi di perfezione, l’esistenza che vibra d’intensità, la purezza di essere spontaneamente vivi e completi nel presente. Il sacrificio che esigono val sempre la pena. Anche quei momenti sono destinati a svanire, a perdersi nell’oblio? La speranza è che rimangano ad aleggiare, come un profumo che evapora lentamente. Eppure, i ricordi sono poi tutto quello che abbiamo. Siamo la nostra memoria, siamo le scorie delle nostre esistenze. Ecco tutto quel che ci appartiene. Null’altro che scorie.

Un Grab ci porta in aeroporto, che sono riusciti a rendere un’attrazione creando “The Jewel”, in sostanza una serra interna a un terminal con tanto di cascata circolare perpetua. Le persone fanno la fila per visitare l’aeroporto, alcuni ci vengono anche senza avere un volo. Sempre più di frequente mi interrogo su quanto il principio di “instagrammabilità” sia tenuto in considerazione da chi crea certi luoghi. E di quanto questo dovrebbe far riflettere sulla gerarchia di rapporti tra noi e gli algoritmi che creiamo.


Singapore rimarrà la tappa più meridionale di questo viaggio. Seduti in attesa del volo AirAsia per Kuching, siamo pronti a lasciare la penisola del Siam dopo averla percorsa da nord a sud. L’aereo decolla sulla pista lucida di pioggia. La prossima terra che calpesterò sarà quella del Borneo.

Foto per gentile concessione dell’iPhone 8 di
@nicolocarlon

publish on May 19, 2023

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