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Elogio all'Ozio
Elogio all'Ozio

WRAD MAGAZINE

Elogio all'Ozio

publish on May 31, 2021

 

Un attimo fa ho dato un'occhiata nella stanza
ed ecco quel che ho visto:
la mia sedia al suo posto, accanto alla finestra,
il libro appoggiato faccia in giù sul tavolo.
E sul davanzale, la sigaretta
lasciata accesa nel posacenere.
Lavativo!, mi urlava sempre dietro mio zio,
tanto tempo fa. Aveva proprio ragione.
Anche oggi, come ogni giorno,
ho messo da parte un po' di tempo
per fare un bel niente.

 

Raymond Carver – Dolce far nulla

 

 

Fare un bel niente, come scrisse Carver, è la peggiore delle colpe in una società della performance come quella in cui viviamo. Il principio di utilità domina le nostre vite e orienta il modo di concepire il tempo e l’impegno. Se qualcosa non è utile ad uno scopo – e lo scopo in una società materialistica è quasi sempre far crescere consumi e produzione per realizzare profitto – non va perseguita. Il tempo stesso è ridotto a cespite (in inglese, asset), contraltare astratto della principale unità di misura con cui viene valutata ogni cosa: il denaro. 

È il tempo della performance, il tempo quantitativo in cui ogni attimo è uguale al precedente proprio perché definito unicamente come risorsa da sfruttare. Il tempo è denaro, cioè il tempo di ognuno è legato alla capacità di produrre qualcosa da scambiare con denaro. Inutile dire che di tutte le cose che il tempo può essere, il denaro è di gran lunga la meno preziosa.

Il tempo diventa sempre più spesso una lista di cose da fare nel minor tempo possibile, per passare alla seguente e così via, in una corsa costante in cui il fare fagocita tutto, inibendo lo spirito critico, la riflessione, l’attribuzione di significato, lo sforzo deduttivo di derivare le conseguenze. Un fare acritico, perché le domande potrebbero minare e rallentare la performance produttiva e di consumo. L’ozio è la scelta di sottrarsi al tempo della performance e al suo costante accelerare, alzare l’asticella, esigere risultati.

Questa divinizzazione della performance produce un totale disincentivo verso tutto ciò che non sia strettamente legato alla produttività misurabile. Esempio lampante sono gli studi umanistici che da decenni vedono diminuire risorse e finanziamenti, proprio perché “costituiscono una pessima preparazione alla servitù economica dei nostri tempi”. 

Dall’altro lato si produce una retorica (storytelling, all’inglese) che fa leva su un approccio emotivo al lavoro e sull’individualismo come unica via per il successo, che appone l’etichetta di fallimento a qualsiasi tentativo di sottrarvisi. 

Veniamo infarciti della retorica del “self-made man”, “dell’ama il tuo lavoro e non lavorerai mai”, “del duro lavoro paga sempre” (salvo specificare che per la quasi totalità di chi lavora sodo non è così) che, personalmente, non suonano meno macabre e sinistre de “il lavoro rende liberi” sul cancello di Auschwitz. La spinta che ne deriva è verso l’individualismo più sfrenato, l’anti-cooperazione, il progressivo annullarsi di scrupoli per raggiungere il proprio obbiettivo materiale, relegando la dimensione umano-sociale a mezzo e strumento di cui servirsi. 

“Un po’ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po’ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell’individualismo esasperato che – stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi – non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.”

L’oziare diventa così un’attività per cui sentirsi in colpa al punto da riempire ogni istante di qualsiasi cosa ci dia l’impressione di “investire” il tempo in maniera produttiva. C’è un horror vacui verso il tempo libero che subito viene etichettato come tempo improduttivo, tempo perso. Il problema è che è proprio in questo tempo che ci si può immergere nella contemplazione di ciò che accade, che si può dialogare con sé stessi e dare forma ai propri pensieri, che si trova la tranquillità per interrogarsi su ciò che succede, in quell’eterno tentativo di comprendere il mistero dell’esistenza. 

A riempire ogni istante di attività ci ritroviamo perennemente stanchi, e la stanchezza impigrisce il pensiero che cerca rifugio in attività che non lo impegnino ulteriormente generando un circolo vizioso da cui è difficile uscire. È normale dire “ci penso dopo che ora ho da fare”, il problema è quando il fare diventa totalizzante e il pensiero si inaridisce fino a sparire come il lago d’Aral. E allora il pensiero stesso diventa la causa dell’horror vacui, terrorizzati che nel vuoto del fare possano insinuarsi pensieri scomodi.

Pensieri che possono accrescere, nella nostra generazione, la spaventosa consapevolezza dell’enorme complessità delle sfide da fronteggiare, sovrastate dalla macro-crisi ecologica. Così, dopo aver visto nonni e genitori sgobbare una vita per mettere in moto la Grande Ruota del Capitale (cioè l’economia capitalista globalizzata), scopriamo che il capitalismo per funzionare ha bisogno di una costante accelerazione e che tocca a noi impedire che si inceppi. Ci troviamo con due direzioni opposte da conciliare: trovare una soluzione per evitare che il nostro sistema economico ci collassi addosso (continuando a farlo accelerare) e al tempo stesso riconvertirlo alla svelta per evitare che i suoi effetti a lungo termine non portino ad un collasso ancora più ampio e definitivo. Un po’ come installare l’alimentazione a idrogeno su di una macchina da corsa per renderla più sostenibile, mentre gareggia in pista spingendo il limite sempre più in là.

Cresciamo indottrinati alla performance in ogni aspetto della nostra vita. Crediamo che la performance sia per noi, mentre serve soprattutto ad alimentare una macchina che o va più forte o collassa, con conseguenze impossibili da prevedere ma sconcertanti da immaginare. 

Eppure, così sarà. Non si potrà consumare e produrre sempre più e all’infinito in un sistema di risorse finito. Certo, la tecnologia permette di sfruttare sempre più risorse e in maniera più efficiente, ma ad un certo punto non ci sarà più nulla da sfruttare. Allora la macchina si incepperà, per sempre, catapultandoci in un fine corsa nel bel mezzo di quel deserto smisurato che avremo contribuito a trasformare nel cimitero della bio-diversità per come la conosciamo oggi.

Non è un caso che il digitale si appropri sempre più del nostro tempo. Il suo ininterrotto vomitare stimoli, diventa un conforto, una via di fuga dall’ascolto di sé e dell’altro, un’anestetizzazione in cui rifugiarsi per la paura del dolore che può (e in una certa misura, deve) scaturire dal confronto con sè stessi.

Quindi che fare? L’urgenza delle varie crisi spinge a risposte pragmatiche che siano rapide. Il problema è che, troppo spesso, le risposte istintive sono meno efficaci sul lungo periodo di quelle meditate e ragionate. Che sia il caso di oziarci un po’ su?

L’Otium degli antichi, ben distante dall’accezione negativa odierna, era il sottrarsi alla vita produttiva (negotium) per connettersi a sé stessi e migliorarsi. Era fondamentale per coltivare la propria interiorità, per sviluppare quello che oggi viene definito il pensiero laterale, per cambiare prospettiva e, sempre in termini moderni, innovare. Assecondare i ritmi crescenti della società richiede un investimento totale delle proprie forze. L’ozio è ascoltare, ricalibrare, rimettere a fuoco, è l’equilibrio. È, anche, preghiera e spiritualità, il momento in cui ricordarsi ciò in cui si crede, ciò per cui ha senso vivere. 

Correre costantemente è un modo di sfuggire a molte cose che richiedono calma per essere affrontate. Anziché gettare lo sguardo nel baratro dell’infinito stimolo digitale che risucchia l’attenzione, rivolgerli verso le infinite possibilità della propria auto-coscienza e della propria immaginazione. È un viaggio meno edulcorato, dove le imperfezioni, i dubbi e i dolori non sono cose da mascherare o da nascondere sotto al tappeto ma da affrontare e assimilare per tramutarle in altro: nutrimento per il futuro e strumenti per creare sè stessi. Affrettarsi sì ma lentamente, come suggerisce il motto “Festina Lente” associato al simbolo della tartaruga con vela da Cosimo I de' Medici che, nel XVI secolo, ne fece l'emblema della sua flotta, come monito di ponderazione delle imprese perché avessero successo.  

Il mio invito è quello di concedersi di ignorare, almeno per qualche ora, le costanti sirene della produttività. Abbandonarsi all’ozio come terreno fertile, come il proprio tempio sacro e inaccessibile al mondo, come forma di ribellione alla direzione della società globale in cui viviamo. Il mondo ha bisogno di ribelli oziosi che, come Carver, mettano da parte un po’ di tempo per fare un bel niente. 

Sarà quel niente a farci rallentare per capire e prepararci a fronteggiare le sfide che ci attendono. 

Magari sarà proprio in quel bel niente che fioriranno le idee capaci di salvare il nostro futuro. 

 

ALVISE BORTOLATO //  Nato a Padova nel 1993. Laureato in filosofia teoretica, appassionato di viaggi e letteratura. Crede nella scrittura come forma di cura e nella conoscenza come forma di libertà. Collabora con aziende artigianali e sostenibili, per le quali cerca le parole giuste per dire la verità.

publish on May 31, 2021

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